E se volessi portare i soldi all’estero?
Dopo un periodo di tranquillità, e dopo gli anni della Voluntary Disclosure, misura che ha permesso l’emersione di capitali ed in parte il loro rientro soprattutto dalla vicina Svizzera, sembra vi sia nuovamente da parte di alcuni nostri connazionali un interesse ad aprire rapporti bancari oltreconfine e portare i soldi all’estero.
Secondo gli ultimi dati della Bri (Banca dei regolamenti internazionali) a fine giugno 2018, i patrimoni detenuti da italiani presso le banche del Canton Ticino sarebbero oltre 11 miliardi, in crescita del 5%. Non è detto che questo trend si consolidi nel tempo, ma è comunque interessante far chiarezza su alcuni punti. Il primo è che aprire rapporti bancari e trasferire il proprio patrimonio mobiliare in Svizzera è del tutto legittimo, ma è bene avere la consapevolezza che attualmente il quadro operativo degli intermediari bancari dei nostri vicini di casa è mutato, altrimenti si rischia di trovarsi in situazioni inutilmente più complicate da gestire:
Cosa spinge una persona a portare i soldi in Svizzera
Sono sostanzialmente tre i timori che inducono un investitore italiano a cercare di trasferire i capitali in Svizzera:
1) L’abbandono dell’area euro da parte del nostro Paese a causa del rafforzamento dei movimenti anti-europeisti, ossia il cosiddetto “redenomination risk”
2) Una crisi così protratta nel tempo da mettere in difficoltà la nostra finanza pubblica e costringere il governo ad adottare prelievi forzosi per sostenere le casse dello Stato.
3) Il possibile ottenimento di un vantaggio fiscale
L’improbabile uscita dall’euro
Relativamente alla prima considerazione, nulla cambierebbe per i risparmiatori avere i capitali presso intermediari italiani o esteri, dal momento che il loro portafoglio è composto per la maggior parte da strumenti finanziari non italiani regolati da giurisdizione non italiana, e tale misura è sufficiente per neutralizzare il rischio di ritrovare il proprio patrimonio ridenominato nella “nuova” lira. Pertanto non corrono un rischio di cambio diverso da quello che avrebbero se depositati in una banca di Ginevra.
Il prelievo forzoso: una misura dannosa anche per chi la compie
Del rischio di un prelievo straordinario sui conti correnti bancari degli italiani se ne parla da anni nei momenti di massima tensione sui mercati finanziari: molti ricordano ancora la crisi finanziaria del 1992: La notte tra il 9 e il 10 luglio del 1992, il governo Amato impose una tassa una tantum dello 0,6% sui conti bancari degli italiani, ovviamente senza preannunciarlo, per evitare un assalto agli sportelli per ritirare il proprio denaro depositato.
Ora le condizioni sono cambiate: un governo che decidesse di prelevare anche una minima porzione di denaro sui conti correnti segnerebbe la sua fine politica; tant’è che neppure il governo Monti, sebbene mise ugualmente le mani sui patrimoni delle famiglie attraverso altre misure, riuscì a trovare nella maggioranza trasversale di allora il sostegno minimo per imporre alcun prelievo forzoso.
Non si tratta solo di un inutile suicidio politico, sarebbe anche un suicidio finanziario
Oggi (rispetto ad allora) con un clic del mouse gli italiani reagirebbero probabilmente alla stangata portando all’estero i propri soldi, provocando il collasso bancario domestico e costringendo il governo a imporre controlli ai movimenti finanziari. Sarebbe un disastro e, peraltro, a fronte di un beneficio per le casse statali decisamente esiguo, ad esempio supponiamo che il prelievo forzoso prevedesse il ritiro dai conti dell’1% delle giacenze (più di quello messo in atto da Amato): lo Stato incasserebbe 13 miliardi di euro, riuscendo ad abbattere il debito di solo lo 0,7% del PIL. Nel frattempo, la fiducia verso le banche e lo Stato crollerebbe ulteriormente e si creerebbero le condizioni per un’altra recessione. Insomma, una misura dannosa e impraticabile.
Fisco: La fine del segreto bancario
Come già detto il trasferimento di denaro è del tutto lecito: non esistono eventuali vincoli o divieti alla movimentazione oltre frontiera, tuttavia debbono essere rispettati alcuni oneri di natura amministrativa e “in primis” di monitoraggio fiscale.
Sulla base dei principi generali previsti dal nostro ordinamento fiscale, tutti i soggetti residenti in Italia sono comunque tenuti ad assoggettare a tassazione anche i redditi di fonte estera (principio della “word wide taxation”).
Pertanto il reddito estero dovrà comunque essere assoggettato alla tassazione ordinariamente prevista per le rendite finanziarie esattamente come se tali redditi fossero detenuti in Italia; perciò in generale nella misura 26% e nel caso di titoli governativi o di altri enti pubblici tassati al 12,5%.
Inoltre il contribuente, per essere in regola, è innanzitutto tenuto a dichiarare eventuali trasferimenti da e verso l’estero di importo superiore a 10 mila euro, ma solo se effettuati mediante plico postale o trasporto al seguito in dogana. Inoltre, è tenuto a fornire evidenza – nella propria dichiarazione dei redditi e in particolare nel quadro RW – dei risparmi e di tutte le altre attività finanziarie detenute all’estero – ad eccezione di specifici regimi di esonero soggettivi (per esempio per i cosiddetti “frontalieri”) o oggettivi (per esempio conti correnti in Ivafe e con valore massimo annuale non superiori a 15 mila euro).
Tale normativa è stata poi recentemente migliorata: a settembre 2018 la Confederazione ha dato attuazione all’adesione degli standard OCSE dello scambio automatico dei dati fiscali (Common Reporting Standard -CRS) in modo che 38 Paesi, tra cui l’Italia, possano collaborare attraverso strumenti giuridici più evoluti ed in particolare:
- Richieste di gruppo o isolate in base all’articolo 27 della convenzione tra Italia e Svizzera sulle doppie imposizioni
- La cooperazione spontanea
- Lo scambio automatico di informazioni finanziarie
In conclusione
Un tempo effettivamente portare i soldi all’estero, e in particolare in Svizzera poteva garantire una maggior sicurezza rispetto all’Italia, nonché uno schermo per l’attività informativa e di controllo posta in essere dal fisco italiano, ma con la fine del segreto bancario è rimasto solo il costo delle gestioni che lì è significativamente più alto senza reali benefici.